#7 The Coin, #8 Orbital, #9 Istanbul, #10 Harry Potter
Insomma, un recappino di febbraio che è il mese che più amo e odio.
Ho sempre invidiato le persone nate in estate. Se provo a sforzarmi realizzo di non avere particolari ricordi dei miei compleanni da piccola, il che mi fa pensare di non aver subito un trauma da villain origin story come una festa deserta che sarebbe senza dubbio rimasto cicatrizzato, e di non poter quindi incolpare la mia infanzia per questo astio. No, sono una persona semplice: vedo le persone festeggiare il compleanno in parchi, giardini e dehors, indossando vestiti leggeri e versandosi calici di vino che devono rintanare nelle glacette per non farlo riscaldare troppo velocemente, e da persona innamorata dell’estate rosico come una bestia pensando ai 13 febbraio trascorsi al chiuso, gli outfit a sei strati per combattere il freddo che a febbraio raggiunge l’apice della frizzantezza, le sigarette fumate fuori dal locale soffrendo per la temperatura. Per tutta questa serie di motivi personali, e una serie di motivi più collettivi come la percezione condivisa della volatilità del mese più breve di tutti, acuita dal fatto che arrivi proprio dopo i primi 31 giorni dell’anno che sembrano durare almeno il doppio se non il triplo, febbraio è per me un mese difficile da riassumere e confusionario da tracciare. E lo stesso vale per le letture.
L’avevo già scritto nella scorsa newsletter, oggi lo confermo: qui sta andando un po’ tutto alle ortiche, e comincio ad avere il labile sospetto che il mio piano iniziale di raccontare una volta a settimana il libro letto nei sette giorni precedenti fosse vagamente azzardato. Era prevedibile: lasciando da parte la mia fastidiosa tendenza a leggere tre libri contemporaneamente, che potrei quindi trascinarmi per diverse settimane per poi concluderli a pochi giorni di distanza, la mia capacità di incasellare nelle ore che passo sveglia quanti più impegni, attività e interessi possibili con millimetrica precisione nelle ultime tre settimane ha reso pressoché impossibile sedermi e trovare il tempo e la concentrazione necessaria per raccontare le mie letture.
Quindi partiamo con un veloce recap di cosa ho letto a febbraio (ne manca solo uno che arriva presto, ma c’è tanto da dire): mi sembrava di aver letto pochissimo ma sono come sempre carica di opinioni. Alla sorte e futura modalità di questa newsletter da oggi in avanti, ci pensiamo poi.
#7 The Coin, Yasmin Zaher (Catapult Books, 2024)
Se hai la possibilità e l’abitudine di leggere in inglese, fatti un enorme favore: leggi The Coin, romanzo di esordio della scrittrice e giornalista palestinese Yasmin Zaher. La mia modesta previsione è che tra qualche mese tuttə parleremo di questo libro anche qui in Italia, dove a quanto pare Mondadori ha acquistato i diritti esteri, ma non ho ancora notizie su chi lo tradurrà o quando uscirà. Come so che sarà proprio Mondadori? Ma no, niente, avevo solo pensato di dare una svolta alla mia vita proponendo la traduzione a qualche casa editrice indipendente: ero pronta ad approfittare della fortuna incredibile che un libro segnalato nella lista di fine anno del New York Times non fosse ancora stato adocchiato da nessun editore in Italia, stando all’assenza totale di notizie al riguardo online, poi ci ha pensato l’agenzia letteraria dell’autrice a farmi ridimensionare. Ma niente di serio.
Il romanzo affronta diversi temi - il trauma e la sua gestione, o meglio la sua rimozione, specie in relazione alla Nakba palestinese, la morsa del consumismo e del capitalismo, New York che è da sempre in letteratura una sorta di macrotema a sé - raccontando la storia di una giovane donna palestinese, narratrice senza nome del libro, che si trasferisce a New York e inizia a insegnare in una scuola media privata.
Amo collegare tra di loro i libri che leggo e trovare fili conduttori, che vanno dalle macro-tematiche trattate ad aspetti minori come personaggi che si somigliano, o situazioni e avvenimenti che ritornano: in questo caso, senza fare spoiler, il finale di The Coin mi ha riportata alla stanza d’hotel di All Fours (post-traumatic stress disorder da libro odiato con ardore, anyone?), che la narratrice senza nome (un’altra! Se non avessi amato profondamente questo libro dovrei ripetermi nel dire: mo’ ve la buco, sta autofiction) aveva ristrutturato sulla falsa riga di una suite a Parigi per esplicitare l’importanza simbolica della sua permanenza in quella camera. Quando il romanzo volge al termine, anche l’appartamento della protagonista di The Coin ha subito una rivoluzione surreale e a tratti magica che sancisce il definitivo declino della sua salute mentale a cui abbiamo assistito inermi per tutte le pagine precedenti. Ma la maniera in cui questo luogo viene messo a soqquadro è allo stesso tempo fuori da ogni schema e perfettamente sensato per il percorso del libro e della sua protagonista, tanto da avermi fatto pensare propio: “È così che si stravolge un luogo di finzione che esiste solo dentro al tuo libro per dimostrare il percorso che la tua protagonista senza nome ha fatto”.
#8 Orbital, Samantha Harvey (2023, Atlantic Monthly Press)
In italiano: Orbital, Samantha Harvey (2025, NN Editore), traduzione di Gioia Guerzoni
Ecco, questo libro lo annoveriamo nella stessa categoria di All Fours: libri che ho letto a tutti i costi perché ne vedevo parlare ovunque (no shit, avendo vinto il Booker Prize) e la mia testarda voglia di avere un’opinione abbastanza formata su qualsiasi fenomeno editoriale mi ha portata nel corso della vita a leggere quintali di spazzatura.
Adesso, parliamoci chiaro: chi sono io per dire che il libro che ha vinto il Booker Prize è monnezza se non un’emerita nessuna? Monnezza è pure un termine forte che a dir la verità non si addice del tutto al romanzo di Samantha Harvey. Sicuramente però posso dire: che mostruosa, ripetitiva e in fin dei conti sterile rottura di palle. Non lo negherò, è stato con candore ma anche fervore che ho sottolineato diverse righe delle prime venti pagine dove venivano inanellati diversi temi centrali: il cambiamento climatico! La meraviglia del pianeta in cui abitiamo, che raggiunge il suo apice quando viene osservato dall’oblò di una navicella spaziale che vi orbita attorno sedici volte in un giorno, così da poter rimirare la sua superficie, le sue terre emerse, i suoi corpi d’acqua nel minimo dettaglio! La superficialità con cui noi esseri umani trattiamo questa splendida e misericordiosa terra, dimenticando come sia esistita per miliardi di anni prima di noi e probabilmente esisterà per miliardi di anni dopo di noi!
E poi, per le successive cento e passa pagine… Il cambiamento climatico! La meraviglia del pianeta! La superficialità umana! Il cambiamento climatico! La meraviglia del pianeta! La superficialità umana! Il cambiamento climatico! La meraviglia del pianeta! La superficialità umana! Va bene, Samantha, okay. Ora, con calma, metti giù quel vocabolario dei sinonimi e contrari, chiudi la pagina con Google Earth e nessunə si farà male.
#9 Istanbul, Orhan Pamuk (2017, Einaudi), traduzione di Semsa Gezgin
Qui è dove, come da premessa iniziale della newsletter (ti ricordi? Te ne ho parlato mesi fa, quando pensavo che avrei scritto una volta a settimana, ahahahahahahah), quello che ho letto si intreccia con la mia vita fuori dai libri e fuori da Substack. Chiaramente non si è trattato di un caso fortuito, di quegli episodi di serendipity che ti fanno dire “wow, che matta e meravigliosa questa vita”: era anni che il reportage-slash-autobiografia-slash-saggio di Pamuk prendeva polvere in un angolo di casa, e nell’istante in cui ho prenotato i voli per festeggiare il mio compleanno a Istanbul, sono andata a spulciare gli angoli della doppia fila di volumi di una delle tante librerie di casa in cui ero certa che avrei ritrovato questo libro.
Non avevo mai letto nulla di Orhan Pamuk, e non sono sicurissima che questo fosse il libro adatto con cui cominciare: le lunghe ed evocative descrizioni di Istanbul, chiaramente scritte da una persona innamorata della sua città come di poche cose al mondo, mi hanno stregata tanto quanto mi hanno annoiata le lunghe digressioni enciclopediche sulla letteratura e i letterati che nel corso dei secoli hanno provato a descrivere la magia, la complessità, gli scorci e le contraddizioni di una capitale a lungo contesa tra due continenti. Ho però amato le numerosissime foto, di archivio o personali di Pamuk, che affollano quasi tutte le pagine del libro e che in una cupa scala di grigi restituiscono l’anima malinconica di Istanbul.
Aver letto Istanbul l’anno in cui mi sono lasciata alle spalle l’avidità e la fretta di dover immagazzinare più libri letti possibili nella mia sfida di Goodreads ha senza dubbio aiutato: me lo sono infatti centellinato nel corso di tutto il mese, leggendone metà prima di andare a Istanbul e riservando le ultime trecento pagine per il ritorno, aiutata dai brevi capitoli tematici che mi hanno permesso di abbandonarlo e riprenderlo a più battute. Un appunto però ce l’ho: ma come fai a non parlare mai, nemmeno una volta in settecento pagine di libro, del numero di cani e gatti che popolano la città e che definire randagi sarebbe inesatto e riduttivo, dato che vengono curati dall’intera popolazione della città con pugni di croccantini lasciati su ogni muretto e davanzale e cucce su ogni scalino, diventando così la rappresentazione forse più vivida e tangibile di senso di comunità che io abbia mai visto in una città? Mi pare un insulto alla tenerezza di tutti quei cani e gatti, onestamente.
#10 Harry Potter e i Doni della Morte, J. K. Rowling (2018, Pottermore Publishing), traduzione di Marina Astrologo
Ma che vuoi che ti dica, avrò letto questo libro dieci volte da quando è uscito, eppure le lacrime che ho versato dalla morte di Dobby in poi - come ogni singola volta in cui l’ho letto - non sono quantificabili.
Diciamo che il mio ragazzo è senza dubbio molto più felice di passare delle ore in casa con me da quando non teme più di sentire la voce di Pannofino che narra 150 ore di Hogwarts, elfi, bacchette magiche e incantesimi.
Ma non è che forse il problema di questa newsletter è che avrei dovuto scrivere fin dall’inizio pareri? pensieri? (chiamarle recensioni mi fa ridere di me stessa, più di quanto io non faccia già abitualmente) stringati come ho fatto ora per riuscire a scrivere una volta a settimana, invece che riservare un infinito vomito di parole a ogni singolo libro come ho fatto fino ad adesso?